Christopher Kent Mineman - Didattica in rete

Effetto fotoelettrico

E' noto che alcuni metalli hanno la proprietà di perdere elettroni quando vengono esposti a radiazione elettromagnetica di opportuna frequenza. Questo fenomeno va sotto il nome di effetto fotoelettrico.

L’effetto fotoelettrico ricopre un ruolo fondamentale nello studio dei fenomeni elettromagnetici in quanto ha messo in crisi il modello ondulatoria e ci ha portato a costruire il modello "corpuscolare" della luce ossia a supporre che la luce possa essere considerata costituita da fotoni.

Nei solidi gli elettroni sono legati ai nuclei atomici e non si possono allontanare spontaneamente dall’atomo a cui sono legati.

Se illuminiamo la materia con una radiazione luminosa intensa, l'energia elettrica trasportata da questa radiazione è in grado di far oscillare sempre più violentemente l’elettrone, che acquistando energia sarà in grado di uscire dal campo elettrico atomico del suo atomo. L'eccesso di energia gli fornirà una determinata velocità, allontanandolo per sempre dall’atomo illuminato: si realizza così l’effetto fotoelettrico.
Questo punto è importante ed è bene chiarirlo ulteriormente facendo un'analogia con le onde del mare. Se il mare è calmo, le sue onde sono solo delle piccole increspature. Ma se il tempo peggiora e le increspature si trasformano in onde minacciose la cui altezza (ampiezza) aumenta tanto da poter danneggiare barche o navi a causa dell’eccessiva energia trasportata dalle onde. Questo esempio ci fa capire che l’ampiezza di un’onda dà una misura dell’intensità dell’onda stessa, ovvero dell’energia da essa trasportata.
Tornando ora all’effetto fotoelettrico, cosa possiamo aspettarci se illuminiamo del materiale con una radiazione di stessa frequenza ma intensità maggiore? Secondo la teoria ondulatoria della luce il numero di creste d’onda rimane invariato, ma la loro ampiezza aumenta. D’altra parte, la violenza con cui questi elettroni vengono espulsi è legata all’intensità della radiazione, ovvero all’ampiezza delle sue oscillazioni. Dunque, ci si aspetta che, all’aumentare dell’intensità della radiazione, la velocità degli elettroni espulsi aumenti.

In realtà le cose vanno diversamente.


Gli esperimenti mostrano che all’aumentare dell’intensità luminosa l’energia dei singoli elettroni prodotti rimane la stessa, ma aumenta il loro numero. Per spiegare questo comportamento, nel 1905 Einstein introdusse il concetto di particella, o quanto di energia, detto fotone. Secondo la teoria quantistica un raggio luminoso non consiste di onde che si propagano, ma di proiettili di luce, i fotoni.

Un raggio luminoso monocromatico, ovvero di una fissata frequenza (come, ad esempio quello generato da un laser) è composto da un flusso di fotoni identici che trasportano ognuno un’energia proporzionale alla frequenza della radiazione. In questo schema, aumentare l’intensità del fascio luminoso equivale ad aumentarne il numero di fotoni, i quali, tuttavia, mantengono singolarmente la stessa energia. L’effetto fotoelettrico viene così a spiegarsi naturalmente. Infatti ogni elettrone viene scalzato in seguito all’urto con un singolo fotone che gli comunica una ben determinata energia. Un aumento dell’intensità luminosa produce un aumento di fotoni e quindi di urti, ognuno dei quali, però, comunica sempre la stessa energia all’elettrone.

Il concetto di fotone si rivelò molto profondo e proficuo.

La teoria quantistica della luce riuscì a riprodurre tutti i fenomeni precedentemente descritti dalla teoria ondulatoria, ed ad Einstein fu assegnato il premio Nobel per la sua interpretazione dell’effetto fotoelettrico (e non per la sua Teoria della Relatività, come si potrebbe credere).

Dimostrazione sperimentale

L’effetto fotoelettrico consiste nell’emissione di elettroni da parte di un metallo freddo quando quest’ultimo è investito da luce ad alta energia.

Il fenomeno fu studiato agli inizi del secolo da P. Lenard, che approntò l’apparato qui schematizzato.

La resistenza variabile S permette di invertire il verso della corrente nel circuito, ed inoltre la differenza di potenziale DV=VM-VL tra i due elettrodi può assumere qualsiasi valore con continuità.

 

Sprimentalmente si osserva che, per alti valori di DV, l’intensità di corrente è indipendente da DV, mentre risulta direttamente proporzionale all’irradiamento I della luce incidente sulla piastra del metallo. Al diminuire di DV si arriva invece ad un punto, in corrispondenza di un certo valore (negativo), nel quale la corrente si annulla. Tale valore, indicato con DVA, è detto potenziale di arresto, in corrispondenza del quale qualsiasi elettrone non riesce a passare dal catodo (piastra L) all’anodo (piastra M).

L'energia minima per estrarre un elettrone è, quindi, uguale all’energia

Westrazione =e DVA.


e da ciò consegue che, essendo DVA indipendente dall’irradiamento, anche Westrazione non dipende da tale grandezza.

Sperimentalmenterisulta invece che DVA sia legato alla frequenza n della radiazione incidente con legge lineare come quella del grafico a destra, e si nota inoltre la presenza di una frequenza minima, detta frequenza di soglia, al di sotto della quale non si ha l’effetto fotoelettrico.

La presenza della frequenza di soglia non è spiegabile con le teorie classiche dell’elettromagnetismo: infatti, in presenza di un’onda elettromagnetica i cui campi elettrico e magnetico hanno intensità massime rispettivamente E e B, il suo irradiamento I, dato dalla formula (nel vuoto)

è tale da permettere di estrarre un elettrone dal metallo con radiazione di qualsiasi frequenza, poiché, come risulta dalla formula basta aumentare la superficie S o il tempo Dt di esposizione in modo che l’energia E fornita dall’onda eguagli il lavoro di estrazione dell’elettrone (e questo non accade).

Einstein per giustificare quanto osservato ha ipotizzato che la luce venga emessa a pacchetti luminosi e che ogni pacchetto luminoso, che chiameremo fotone non abbia massa ma trasporti energia. L'energia associata ad ogni fotone è dato dalla formula E = h n dove n è la frequenza della luce. Inoltre ha affermato che l'elettrone assorbe il fotone solo se lo stesso ha una energia superiore a quella di estrazione.

L'energia cinetica massima, che può essere posseduta da un elettrone emesso, è data dalla seguente formula: .